La sharing economy sembra pronta per passare dallo stato di fenomeno di nicchia a quello di fenomeno di massa.
Perché qualcosa diventi un fenomeno e si ponga all’attenzione di molti, se non di tutti, è necessario che sia “di moda”, che faccia tendenza; meglio è se questa moda proviene dall’estero. Anche in questo momento di crisi economica e sociale, quando ci si volge con lo sguardo all’indietro, alla ricerca di buone pratiche e consuetudini di un vivere più sobrio, più semplice, meno sprecone ma, diciamocelo, anche meno denso di opportunità; ebbene, anche adesso, questa azione, affinché sia significativa nei numeri e nella qualità, deve necessariamente diventare trendy. È ciò che sta accadendo alla “sharing economy”, a quel fenomeno che raggruppa nuovi modi di condividere spazi, lavoro, opportunità e servizi, questi ultimi spesso gratuiti nei quali si re-interpretano modelli del passato sviluppando forme alternative di scambio caratterizzate per l’alta interazione sociale tra i soggetti coinvolti, basata su una comunicazione centrata su internet e nuovi media.
Siamo costretti a (re-)”interpretare” forse perché non siamo più in grado di “essere”? Abbiamo perso la semplicità di un tempo e siamo costretti a ripercorrere a ritroso strade che avrebbero dovuto essere a noi già note? Siamo costretti a farlo solo perché spinti da vera esigenza, consci di esserci persi qualcosa lungo la via? O perché succubi di un coinvolgimento mediatico-emozionale?
Forse nella ricetta della sharing economy gli ingredienti ci sono tutti ma non sono ben chiare le proporzioni tra di essi. A qualcuno potrà sembrare inutile questa ricerca ma, invece, credo che il dubbio sia legittimo di fronte a fenomeni in rapida ascesa, soprattutto per chiedersi se questo fenomeno è veramente il frutto del cambiamento di una società che inizia a scavare nel profondo, opppure se esso è destinato a mantenersi in superficie, pronto a svanire ai primi accenni di rinnovato benessere.
Molti economisti dicono che in Occidente non si tornerà mai più a quel benessere che abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa. Allora, forse, dobbiamo sperare in questo perché il cambiamento, ancora appena all’inizio, si possa radicare tanto da non dover essere più “interpretato”, ma possa diventare parte integrante di un nostro nuovo modo di vivere i rapporti in una società più equa e condivisiva.
Come abbiamo già detto il fenomeno nasce fuori dall’Italia, dove è più diffuso, e porta con se tante opportunità, quasi tutte con nomi dal suono USA, alcuni non hanno letterali traduzioni italiane, altri meno ma continuiamo, a pronunciarli in inglese, car sharing, bike sharing, coworking, cohousing, social leading, crowdfunding, solo per citarne alcuni. È una nebulosa di servizi, modalità di lavoro e di condivisione in qualsiasi ambito, insomma, una serie di opportunità ancora in formazione frutto di sperimentazioni sociali ed anche economiche, molte delle quali anche da noi, soprattutto al nord, iniziano a trovare consenso; ancor poco nella pratica, ma già con un loro significativo spazio nelle opinioni della gente.
Però, due di questi servizi hanno radici più nostrane e sono nati in tempi nei quali la crisi, in verità sempre latente in Italia, non era percepita come tale e nei quali di sharing economy non se ne sentiva ancora parlare: sono le Banche del Tempo ed i Gruppi d’Acquisto Solidali, detti più brevemente G.A.S.
Nati senza la necessità per la loro applicazione di tecnologie sono sempre rimasti attivi in nicchie più o meno diffuse del privato sociale ed in quelle che oggi definiamo del “consumo critico”, situate anche in questo caso soprattutto al centro-nord. Oggi anch’essi godono del rinnovato interesse verso la ”economia della condivisione” ed iniziano ad avvalersi dei nuovi strumenti di comunicazione basati su internet.
Senza addentrarmi nell’esplicazione delle varie opportunità offerte dalla sharing economy mi vorrei soffermare sulle caratteristiche territoriali o meglio, culturali che possono favorire o meno la creazione e la diffusione di un servizio di questo tipo.
In particolare, la provincia rispetto ai grandi centri e soprattutto il Sud rispetto alle regioni del centro e del nord, lo dicono le statistiche, sono i territori dove sembra attecchire meno la voglia di usufruire di queste nuove opportunità da condividere.
Per la provincia, a naso, possiamo identificare nella maggior coesione sociale, nella minor dimensione urbana, nella maggior frequentazioni familiari, nelle maggiori opportunità di incontro fisico tra soggetti che già si conoscono, i fattori che influenzano negativamente la diffusione della sharing economy.
Per altri versi, a Sud, a volte anche in concomitanza ai precedenti fattori, si può ipotizzare che sia il modello culturale più comune in queste regioni ad influire negativamente. Qui si favoriscono rapporti, forti e cordiali tra singoli e piccoli gruppi; molto meno, rispetto al centro-nord, è invece il senso di appartenenza alla propria comunità, soprattutto per quanto relativo alle esigenze condivise, ai diritti ed ai doveri.
Quest’anno, il 2014, da più parti si sente dire che sarà l’anno della sharing economy. Forse i tempi sono veramente maturi perché si possa affiancare alla old economy una nuova economia, più basata sulla collaborazione e sulla condivisione.
La crisi economica che tarda ad allentare la sua morsa, la sempre maggiore diffusione dei social network nonché l’utilizzo di nuovi mezzi come gli smartphone, anch’essi sempre più diffusi, lasciano ben sperare per il prossimo futuro.
La sharing economy in pratica
Questa breve rassegna rappresenta solo una parte di quanto la sharing economy ha saputo esprimere fino ad oggi. Il fenomeno è in continuo movimento e nuovi servizi nascono, altri si trasformano ed altri ancora forse scompariranno.