Che le famiglie siano al centro di una grande evoluzione culturale, era chiaro agli occhi di tutti, anche il legislatore aveva posto in essere una serie di provvedimenti, falliti con gli ultimi tentativi dei pacs e dei dico. Dalla fine del 2013 grazie ad una forma contrattuale, è possibile stipulare “contratti di convivenza” a quanti abbiano deciso di mettere su famiglia non regolarizzandosi con il matrimonio, dimostrazione che il cambiamento culturale può partire, deve, dal basso. Il contratto è stipulabile in qualsiasi momento della convivenze e revocabile allo stesso modo.
In Italia, secondo l’Istat, nel 2007 500mila coppie (vale a dire il 5,9% del totale) erano formate da libere unioni; in tre anni sono aumentate di 472mila unità, tanto che tra il 2010 e il 2011 a vivere sotto lo stesso tetto, pur non essendo riconosciute dallo Stato italiano, erano 972mila coppie.
Tutte le coppie di fatto, anche quelle omosessuali, hanno, così, una possibilità in più per tutelare i propri aspetti patrimoniali, veder garantiti i diritti fondamentali come l’assistenza sanitaria in ospedale o quella giuridica in caso di separazione o di morte.
Se la convivenza termina, il convivente in stato di bisogno non ha diritto né a sostegni economici, né al subentro nel contratto di locazione, salvo un diverso accordo tra le parti. Questi patti che disciplinano i più diversi aspetti patrimoniali di una convivenza, dovrebbero essere proprio dedicati a tutte le coppie di fatto etero o gay che fino ad oggi si sono scontrate con la legislazione in caso della nascita di un figlio, della cointestazione di un prestito o dell’acquisto di un immobile o di un’auto.
Il contratto redatto dal notaio è tagliato sulle esigenze specifiche della coppia e può riferirsi specificatamente ai criteri di partecipazione alle spese comuni, ai criteri di attribuzione della proprietà dei beni acquistati nel corso della convivenza, le modalità d’uso della casa di residenza, la definizione dei reciproci rapporti patrimoniali in caso di cessazione della convivenza. È, altresì, possibile pensare a un assegno di mantenimento al termine della convivenza e inserire nel contratto la facoltà di assistenza reciproca per tutti quei casi di malattia fisica o psichica, oltre alla designazione di un amministratore di sostegno.
In materia di filiazione questo contratto non fa altro che sancire l’obbligo già scritto nero su bianco, da oltre sessant’anni, all’articolo 30 della Costituzione italiana: “compito dei genitori è quello di provvedere al mantenimento, all’educazione e all’istruzione dei figli anche se nati fuori dal matrimonio”. Ma, a questo punto, ci si potrebbe domandare: «A cosa serve recarsi dal notaio per la stipula di contratti, con un costo, se gli stessi non aggiungono nulla a quello che già il diritto privato prevede per tutelare l’unione di due soggetti? Viene proposto come nuovo uno strumento, che forse di nuovo non ha alcun elemento. Il contratto di convivenza, già utilizzato da molti anni, per la sua stipula non richiede la presenza del notaio (e neppure dell’avvocato) bensì può essere redatto in carta libera dai contraenti sotto forma di semplice scrittura privata; di fatto, un atto che ha lo stesso valore legale di quello stipulato dal notaio ma che, per di più, non costa nulla.
Occorre precisare, però, che il contratto di convivenza può regolamentare solo aspetti di carattere patrimoniale dei conviventi; se si vuole intestare un immobile o (lasciarlo in usufrutto) al partner come a chiunque altro non sia inserito nell’asse ereditario, l’atto dal notaio è invece indispensabile. È altresì consigliabile, onde evitare spiacevoli sorprese, recarsi da notaio per autorizzare ognuno dei componenti della coppia ad assistere il partner in caso di necessità e ad avere il diritto di accesso alle informazioni sulle condizioni sanitarie del partner in caso di ricoveri e malattie.
Di fatto la diatriba sulla validità/utilità dei “contratti di convivenza” resta; quello che piuttosto dovrebbe farci riflettere si riferisce a come la famiglia è cambiata; è necessario interrogarsi sugli impegni che uno Stato dovrebbe porsi in merito ad essa. In tal senso il Parlamento europeo, in relazione alla Raccomandazione del 16 marzo 2000 sul rispetto dei diritti umani nell’Unione Europea, aveva già sollecitato gli Stati membri a garantire alle coppie non sposate e alle coppie dello stesso sesso pari dignità e pari diritti rispetto alla famiglia tradizionale, soprattutto in campo legislativo e dei diritti sociali. Con il patto si intende rispondere a queste istanze regolando le diverse forme di convivenza fra individui, anche dello stesso sesso che hanno scelto di intraprendere un unione che non vogliono o non possono ufficializzare con il matrimonio.
Un’ultima, ma credo, non meno importante considerazione, dovrebbe ricordarci che i contratti di convivenza pongono rilievo ad un’emozione interiore della società, che non ha alcuna rilevanza giuridica nel nostro ordinamento, perché non è né misurabile né quantificabile, ma che ormai è un’esigenza di tutti quei soggetti che, escludendo l’istituto del matrimonio, decidono di progettare un futuro a due.